Le metamorfosi del classico: corpi naturali, artefatti materiali e nuove pseudomorfosi

Rivista di Estetica 67:197-218 (2018)
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Abstract

A quasi un secolo da L’Opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin e mentre si svolge il dibattito sull’agency degli oggetti, il tema di questo articolo è la potenza del «classico» nella cultura contemporanea, per la quale l’ordine cronologico secondo cui gli artefatti vengono prodotti non è più dirimente per comprenderne la valenza storica e la qualità estetica. Se classica è per noi la Cnosso minoica inventata a Creta dall’archeologo Arthur Evans con ampio uso di cemento all’inizio del Novecento, che cosa resta del classico una volta orfano della sua natura di passato? Seguendo l’indicazione dataci da Michel Foucault, per il quale la nostra epoca si organizza secondo criteri spaziali e non temporali, originali e copie dell’arte greco-romana vengono qui pensati come corpi naturali – variamente distribuiti su scala locale e globale –, e i loro rapporti sono descritti mettendo in luce le relazioni topologiche che essi intrattengono, piuttosto di quelle genetiche. Reperti e fossili. Il metodo di riferimento utilizzato è la cladistica: un sistema di visualizzazione in uso nella biologia evolutiva che concepisce la struttura della storia della vita in base a una serie di diagrammi ramificati che rappresentano l’ordine di parentela tra gli organismi, mostrando la via che li collega con maggior probabilità. Invece di spiegare i processi evolutivi come una serie di cause e successivi effetti il cui nesso produce eventi puntuali, la cladistica prevede un ventaglio di possibilità da visualizzare in un punto di congiunzione che rappresenta l’insieme delle caratteristiche condivise che ci aspetteremmo presenti in un ipotetico antenato comune a due o più specie, per differenza da altre. Questo approccio suffraga il paradigma indiziario con cui presenta più di qualche analogia. La storia dei prestiti tra scienze naturali e umane si trova così ulteriormente arricchita. Il fatto di inserire il possibile nel passato, come già suggeriva Henri Bergson, permette di ripensare il processo di imitazione in termini di metamorfosi, e in particolare di «pseudomorfosi». Oswald Spengler si valse di questo termine mineralogico per spiegare come nuove culture penetrino in culture loro aliene di cui assumono la forma pervertendone il contenuto, e venendone a loro volta pervertite, così da dar vita a uno straordinario processo di finzione: questo articolo termina suggerendo che il «classico» è, nelle sue varie incarnazioni, un processo squisitamente pseudomorfico e che proprio questo gli permette di partecipare a quella dialettica tra cultura alta e mondo profano che, secondo lo studioso dei media Boris Groys, è ciò che produce il nuovo.

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Chiara Cappelletto
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