Lives from philosophers. Philosophy and Autobiography
Roma RM, Italia: Lo Sguardo (
2013)
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Abstract
Chi è quel soggetto che nell’autobiografia dice “io”? Raccontarsi non è già diventare altro? L’autobiografia è un esercizio filosofico in cui l’identità si scopre tramata da altre vite e l’io emerge soltanto perché dislocato nei suoi segni. Sono forse proprio le condizioni di impossibilità di un’autopresentazione trasparente e definitiva che rendono possibile una soggettività autobiografica. Scrivere di sé infatti è già trascendenza: insinua il sospetto
di un’alterità, di un’alterazione e turba la rigida identità, che si presume autonoma e precedente alle sue iscrizioni. L’intreccio tra autós, bíos e graphein non è dunque una neutra auto-espressione, ma uno specchio in cui il proprio volto è riflesso e capovolto, il sé si racconta e si ascolta, recita e osserva. In che modo quindi l’autobiografia è un luogo di verità? «La verità può essere il cuore dell’autobiografia», afferma John M. Coetzee, «ma ciò non vuol dire che l’autobiografia abbia a cuore la verità». Ogni lettera scritta traccia l’aderenza di sé a sé e alle cose, nell’istante stesso in cui marca una separazione e una distanza. In questo paradosso si infrange ogni pretesa di obiettività o di adeguazione. Qui la trasparenza dell’io viene disdetta, come anche la sua sovranità del discorso. L’autobiografia è, allora, la scrittura impossibile come unica iscrizione possibile: il tentativo estremo di restituire il senso di una vita incompiuta, di dare una verità senza verità, di raccontare di sé da sé. È una messa in scena dell’identità e della propria distanza, un’autosospensione e una torsione tropica dell’io, che si racconta e si espone. Dietro ogni scrittura autobiografica c’è infatti un nome proprio, che sigilla l’autore, il narratore, il personaggio. Ma proprio in questa firma si custodisce, più che il diritto a una proprietà, la promessa di verità per sé e per gli altri: un corpo a corpo con la lingua e con la propria storia.