Abstract
Il processo di riconoscimento delle cure palliative quale diritto umano individuale di base ha recentemente riscontrato una proficua quanto attesa accelerazione. Parimenti allo sviluppo tecnico dei nostri giorni non si esauriscono infatti le forme dell’umano sentire e sperare, l’esigenza e l’impeto dell’aver-cura autentico dell’altro, la risposta multidisciplinare, comunitaria e sociale che ne consegue doverosa. È quanto attesta e promuove la recente Dichiarazione di Astana sull’assistenza sanitaria primaria, nel riconoscere le cure palliative tra le forme di cura primarie oggi possibili e dovute ad ogni individuo, espressione di un diritto alla salute non riconducibile a mere forme di assistenzialismo tecnico-burocratico, lontane dall’uomo e dalla vita, ma segno e presenza concreta e tangibile dell’umanità inalienabile da cui esso proviene. Ciò che accomuna in questo percorso di riscoperta e ridestazione è l’essenza della nostra umanità, il desiderio di non cadere intrappolati in una in-umanizzazione collettivizzata, assurda quanto brutale, l’umanità di un diritto alla vita, alla salute e alla sua tutela che nasce rinnovato nel cuore di ogni generazione, la consapevolezza originaria di una determinazione ontologico-esistenziale comune e condivisibile. Il problema della reciprocità del riconoscimento personale fra gli esseri umani nelle pratiche dell’aver-cura e la necessità di un’instancabile promozione di forme di presa in carico realmente globali ed affidabili permea profondamente lo stesso processo di un autentico, efficace e quanto più conforme possibile sviluppo sociale, in una comunità di uomini e di popoli che stenta a riconoscersi come tale e dove occorre innanzitutto curare la speranza affinché ne venga abitata la cura di ogni persona.