We can portray or take on the role of someone whom we are not. For example, a professional actor can play the role of a fictional character who does not exist in the real world, although she believes she is not that person. This behavior is named “acting.” My aim here is to locate the necessary and sufficient conditions of acting. In my view, acting is a process of communication between actors and audiences. One of its necessary components is that (...) actors use their own features to represent those features that their characters have; another is that actors intend to make their audiences imagine that they are themselves identical to their characters. In this article, I specify these two components, critique other views of the definition of acting and distinguish acting from other similar processes. (shrink)

In this paper, I review developments in discussions of fiction and emotion over the last decade concerning both the descriptive question of how to classify fiction-directed emotions and the normative question of how to evaluate those emotions. Although many advances have been made on these topics, a mistaken assumption is still common: that we must hold either that fiction-directed emotions are (empirically or normatively) the same as other emotions, or that they are different. I argue that we should reject this (...) dichotomy. (shrink)

Il cosiddetto “paradosso della finzione” nasce dal tentativo di spiegare quale tipo di emozioni proviamo verso quegli oggetti che troviamo nei romanzi e nei film e che sappiamo perfettamente essere fittizi. Si tratta di un paradosso classico, tornato alla ribalta nel 1975 dopo la pubblicazione di un articolo di Colin Radford che partiva precisamente dall’interrogativo riguardante le lacrime che versiamo per ciò che non è reale (come un personaggio fittizio, appunto). Perché ci commuoviamo per il suicidio di Anna Karenina se (...) sappiamo che non esiste? Che differenza c’è tra piangere per Anna Karenina, piangere per una bugia, piangere per la depressione e fare finta di piangere perché si vuol fare credere a chi ci guarda che siamo sinceramente commossi? In Piangere e ridere davvero (2009) Maurizio Ferraris offre un’interessante proposta teorica per dissolvere il paradosso in questione e si sofferma su alcune distinzioni fondamentali riguardanti le nostre reazioni emotive a stimoli reali e fittizi. In questo saggio si prende spunto dalla teoria di Ferraris e ci si propone di chiarire che cosa significhi fare finta di rispondere emotivamente a qualcosa nella vita di tutti i giorni e quale sia la differenza tra queste “finte” emozioni e quelle che invece proviamo durante la fruizione di opere che sappiamo essere di finzione. Saranno scelti come esempi paradigmatici il caso Fenaroli (al centro della cronaca italiana alla fine degli anni Cinquanta), Il vedovo di Dino Risi e Scusate il ritardo di Massimo Troisi. (shrink)